Gli incontri di approfondimento – parte 1

Note storiche sulle Decennali, popolarmente dette ”Addobbi”
Sintesi dell’incontro audiovisivo con il dott. Mario Fanti e Carlo Degli Esposti
18 gennaio 2001

La ragione essenziale e profonda delle ”decennali” sta nella lode, adorazione e onore verso il Santissimo Sacramento. La radice e il fulcro è l’Eucaristia. Nel 1262 veniva istituita la festa del Corpus Domini (=corpo del Signore) e l’uso di celebrarla nel giovedì successivo all’ottava di Pentecoste si diffuse con grande rapidità, favorita dai vescovi che in essa videro uno strumento per contrastare l’eresia di Berengario che negava la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.
A Bologna l’uso di celebrare la festa con una pubblica e solenne processione venne introdotto fra il 1260 e il 1295. Gruppi di laici iniziarono a riunirsi presso le parrocchie nel nome del Santissimo Sacramento e quando il papa Paolo III nel 1539 istituì le Compagnie del Santissimo, queste si impegnarono per organizzare di processioni parrocchiali con molta solennità.

Il card. Paleotti, grande realizzatore della riforma cattolica a Bologna scaturita dal Concilio di Trento, nel 1567 dispose che le processioni nei 5 giorni previsti non fossero più di quattro al giorno, una per quartiere della città, e solamente nelle parrocchie auto-rizzate dal vescovo, ordinando che le strade dove passava la processione fossero pulite e ornate con decorazioni ed oggetti artistici. Così ben 20 parrocchie, nella settimana successiva alla ottava di Pentecoste celebravano solennemente la loro festa eucaristica. Il giovedì, giorno liturgico della festa del Corpus Domini era riservato alla Cattedrale.
La scarsità di mezzi economici ridusse il numero a 10 parrocchie all’anno, e solo le più abbienti ebbero un turno fisso annuale. Intanto anche le autorità civile interven-nero emanando disposizione precise per la buona riuscita della festa. Attraverso disposizione successive nell’arco di alcuni decenni vennero codificati alcuni criteri: le strade dovevano essere ripulite ed addobbate e il fondo stradale essere ricoperto di terriccio giallognolo; fossero inoltre coperte in alto con tele stese longitudinalmente. La festa prende lentamente anche negli aspetti esteriori quelle caratteristiche che poi l’ac-compagnarono per i secoli successivi e che motivarono il nome popolare di ”Addobbi”.

Verso il 1670 fu stabilito un turno decennale di 5 parrocchie all’anno. L’istituzione di un turno fisso e stabile favorì una serie di benefici materiali per le chiese. Si cominciò infatti a preparare la festa decennale con lavori di ordinaria o straordinaria manutenzione degli stabili pubblici e privati e delle chiese stesse. Le famiglie nobili e abbienti cominciarono ad esporre le loro opere d’arte e a partecipare alla beneficenza ai poveri della parrocchia in occasione della festa. Era anche momento propizio per commissionare opere a pittori e scultori e architetti aumentando così il patrimonio artistico della città e delle parrocchie che decidevano l’acquisto o ricevevano in dono da privati suppellettili sacre preziose di oreficeria, argenteria, tessuti e ricami di pregio.
Nel 1796 le truppe di Napoleone giunsero a Bologna e tentarono di sopprimere ogni tradizione religiosa. A seguito degli sconvolgimenti politici di quegli anni, le decennali subirono un contraccolpo ma senza scomparire. Nel 1817 il card. Opizzoni riorganizzava il turno decennale secondo il nuovo assetto di confini parrocchiali con le processioni sempre di domenica. Tale assetto è giunto praticamente fino all’epoca nostra. La guerra e le mutate situazioni sociali hanno incrinato l’apparato esterno e pubblico delle decennali e delle processioni.
Nel dopoguerra l’espansione della città e l’istituzione di nuove parrocchie in periferia ha allargato di nuovo il numero delle parrocchie che ogni hanno celebrano con varia solennità la loro festa decennale in onore del Santissimo Sacramento.

Identikit di Gesù di Nazaret – Card. Giacomo Biffi.
15 febbraio 2001

Il tema per l’incontro di questa sera è la figura di Gesù di Nazaret, un personaggio che ha segnato la storia indelebilmente, tanto che dalla sua venuta si contano gli anni. Certo noi non possediamo le fotografie, i ritratti, gli autografi, le registrazioni della viva voce, però abbiamo delle informazioni eloquenti e puntuali di varia natura: ci sono i detti, le testimonianze di chi gli è stato accanto, i dati storici che lo riguardano. Sono notizie preziose che vanno lette, ordinate, messe a confronto ai fini di arrivare a un’immagine che sia la meno difforme, la meno lontana dalla effettiva realtà.

L’anno scorso, incominciando questa presentazione, ho usato il concetto di identikit: ”identikit di Gesù”. E ha incuriosito moltissimo. Ma in realtà è un’immagine desunta dagli usi delle polizie di tutto il mondo: quando la polizia ricerca un malfattore, se è in mancanza di dati più precisi, ricostruisce in base ai ricordi e alle indicazioni di quelli che hanno avuto modo di accostarlo, la fisionomia così come la si può ricostruire. Certo è un po’ ardita questa trasposi-zione di un vocabolo che di solito si riferisce ai delinquenti alla figura di Gesù, qualcuno la potrà giudicare anche irriverente, però forse non Gesù: forse Lui mi perdonerà, perché in fondo anche Lui non ha esitato a paragonarsi a un malfattore quando ha descritto la sua venuta finale come la sorpresa di un ladro. Del resto il Signore è davvero un ”ricercato”, nel senso più forte del termine: ricercato per il desiderio di vederlo, che è intrinseco alla nostra vita di fede.

Ogni identikit necessariamente è una ricostruzione approssimativa, il che vale anche nel nostro caso; però noi siamo avvantaggiati nel fatto che i testimoni che noi possiamo addur-re sono molto attendibili; e i testimoni sono praticamente gli scritti evangelici, i quali riferisco-no – e questo è un giudizio universale, a prescindere dalla fede, dalla ideologia – le cose con molta oggettività. Certo, a proposito delle narrazioni evangeliche si crea subito una differenza tra quelli che hanno un atteggiamento di fede e chi ha un atteggiamento di incredulità, ma questo deriva dal fatto che queste narrazioni includono anche gli aspetti soprannaturali. Ma noi gli aspetti soprannaturali questa sera li lasciamo fuori; facciamo la nostra ricerca con un metodo puramente storico, interpretativo. Questo comporterà che lasceremo fuori tutte le cose che vanno al di là della conoscenza umana, come i miracoli, perché vogliamo solo ricostruire l’immagine di Cristo: che tipo era.

Ho detto che le nostre testimonianze sono quelle degli Evangeli, perché sono gli unici che parlano di Cristo. Di altre testimonianze consistenti non ce ne sono. Allora secondo me molti parlano di Cristo – e questa è una cosa molto importante, molto bella, vuol dire che in-somma affascina ancora -, però la metodologia spesso è sbagliata. Parlano di Cristo inventan-do. Fanno il cinema, fanno gli spettacoli musicali… ma inventano. Ma quando uno si mette a inventare può dire quello che vuole! Io credo che la metodologia corretta è quella di stare solo alle testimonianze. Cioè: o di Gesù Cristo non si dice niente, oppure si sta a quello che risulta dalle testimonianze di chi in realtà gli è stato vicino. Questa è l’unica metodologia corretta.

Proprio per facilitare la comprensione svolgerò quello che debbo dire rispondendo a cinque domande molto semplici.
Prima domanda: Come andava vestito Gesù? La cosa più esteriore di uno è il vestito. Beh, io devo dire che, contro ogni precomprensione pauperistica, Gesù andava vestito bene. Egli si presentava con un look, come si dice adesso che si parla metà in italiano metà in inglese, ben diverso da quello di Giovanni il Battezzatore. Giovanni aveva un divisa molto ispida, fatta di peli di cammello; aveva un modo di nutrirsi che era molto poco bolognese, perché mangiava le cavallette. Gesù non è niente di simile; direi che Lui stesso si contrappone allo schema di Giovanni. Lui stesso dice: ”E’ venuto Giovanni, che non mangiava, che digiunava eccetera, e voi non gli avete dato retta; è venuto il Figlio dell’uomo, che fa il contrario…” Quindi è veramente il contrario. Qualcosa poi possiamo sapere, anche con precisione, sulle vesti di Gesù: il suo abito è quello degli Israeliti osservanti e dei notabili ebrei, i quali in ossequio delle prescrizioni della Legge usavano adornare le estremità dei loro abiti di nappe colorate, di fiocchi, quello che nel testo greco si chiama kràspeda. E’ vero che Gesù rimprovera ai Farisei e agli Scribi la vanità di allungare quelle nappe indebitamente, sono esagerati nei fiocchi, però le portava anche lui, tanto è vero che nell’episodio della donna che aveva questa malattia segreta, il flusso di sangue, e vuol guarire, e furtivamente gli si accosta, il Vangelo dice: ”gli toccò la nappa, il fiocco”. La traduzione della CEI è fuorviante, perché dice ”il lembo”, ma in realtà è scritto èpsato tou kraspèdou. Vuol dire gli toccò il fiocco che aveva, che era tipico dei notabili, di quelli che andavano in giro vestiti bene. Poi aveva una tunica che non era di fattura ordinaria: è intessuta tutta di un pezzo, senza cuciture, tanto che, lo sappiamo dal Vangelo di Giovanni, sotto la croce i soldati, per non deprezzarne il valore tagliandola, la tirano a sorte. Ma non era soltanto l’abito; era tutto il suo portamento che era improntato a signorilità e autorevolezza. Chi si rivolge a Lui, anche se è forestiero, non può fare a meno di chiamarlo rispettosamente ”Signore”. Questo appare chiaro nel Vangelo: per esempio il centurione di Cafarnao, che non è un ebreo, gli dice ”Signore”. Così la donna cananea. A mano a mano poi che la sua parola si fa conoscere, allora gli si dà anche il titolo di ”Maestro”, didàscalos; glielo attribuiscono anche i suoi oppositori, Farisei, Sadducei, i Dottori della Legge. E questa sua signorilità gli consente di essere invitato in casa delle persone socialmente più ragguardevoli, che sono di due tipi diversi, due gruppi ben distinti: ci sono i Farisei, che sono gli osservanti della Legge ma comunque sono la classe dominante in Israele, e ci sono i Pubblicani, molto chiacchierati, che però erano ricchi, perché facendo il mestiere di esattore delle imposte rubavano e dunque si arricchivano -gli esattori di allora, io non voglio dare giudizi…- e lo invitavano a pranzo, il che vuol dire che sapeva stare in società. Maestro, proprio perché riconosciuto tale, nelle riunioni del sabato nella sinagoga Lui può alzarsi e spie-gare la Scrittura: avviene nella sinagoga di Cafarnao e avviene nella sinagoga di Gerusalemme. Del resto Lui non si schermisce di fronte a queste qualifiche onorevoli, anzi mette in chiaro la pertinenza. C’è un detto di Cristo, riportato dal Vangelo di Giovanni, che dice: ”Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché io lo sono.” Quindi questa è un po’ una prima annotazio-ne: non è vestito come un penitente, un monaco, un francescano. Non è San Francesco, no, e va vestito bene. Questo è quello che appare dal Vangelo. Può darsi che a questo mio modo di andare a scovare dettagli -però tutto documentato, io non invento niente- qualcuno si meravigli un po’, perché in realtà c’è una precomprensione un po’ ideologica, che va in senso diverso.

Seconda domanda: Quali erano le sue frequentazioni sociali? Quali ambienti frequentava? E’ chiaro che Gesù non ha preclusioni: i destinatari dei suoi insegnamenti sono soprattutto i pastori, i pescatori, i contadini, i braccianti, come si viene a sapere dalle ambientazioni delle sue parabole: le ambienta nel contesto sociale dei suoi ascoltatori. Però non solo loro, anche gli uomini di specifica e superiore cultura. Egli ha a che fare moltissimo con gli Scribi, che sono i professori universitari, i maestri, e i Farisei, i capi. Certo, se ha una preferenza, è per gli umili e gli sventurati: ”Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi”, però non respinge né i capi della sinagoga né i centurioni romani. Sa e afferma che non sono per così dire i primi della classe ad essere avvantaggiati nell’apprendimento delle cose che contano. Uno dei detti più importanti e più rivoluzionari di Cristo è quando Gesù ringrazia il Padre perché ha tenuto nascosto queste cose, cioè l’annuncio del Regno, ai sapienti, ai dotti e agli intelligenti, e li ha rivelati ai piccoli. E’ tremenda questa frase: ringrazia perché quelli che credevano di sapere non capiscono, capiscono invece i piccoli. Però Egli non ritiene di perdere tempo quando si intrattiene in lunghi colloqui, magari notturni, con un grande maestro in Israele come era Nicodemo. Allo stesso modo Egli sa e afferma che nella corsa alla salvezza è grave l’handicap dei ricchi, mentre i poveri sono beati perché il Regno dei cieli è di più facile acquisto: questo lo dice con molta chiarezza, suscitando grande stu-pore; però Egli afferma anche che nessuno può disperare perché tutto è possibile a Dio, anche di far passare i cammelli per le crune degli aghi, e quindi di far passare anche i ricchi per le porte strette del Paradiso, magari scorticandosi un po’. D’altronde – questo non lo si nota mai, ma si deve sapere, perché chi conosce il Vangelo lo sa – con buona pace delle accentuazioni populiste, Gesù intrattiene rapporti numerosi e significativi con le persone benestanti. Questo risulta dal Vangelo: basterà ricordare per esempio Giuseppe d’Arimatea, che era un uomo ric-co, dice il Vangelo, ed è così legato a Gesù che è l’amico di famiglia che interviene nel mo-mento della sepoltura. Per esempio il proprietario della sala del Cenacolo: quando Gesù man-da due dei suoi apostoli a preparare la Pasqua, Egli dà le indicazioni per arrivare a questo tale, e dice di riferire così: ”Il Maestro dice che vuol mangiare la Pasqua in casa tua” e nella sua casa si trova ”al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta”- così dice il Vange-lo di Marco. Quindi è una casa di lusso, una casa con un grande salone e con i tappeti, ador-na. C’è, nell’inizio del capitolo 8° del Vangelo di Luca, un’annotazione molto interessante, dove si dice che c’era un gruppo di donne che finanziava il gruppo apostolico; cioè l’impresa apostolica di Cristo aveva un finanziamento. Tra queste donne noi troviamo per esempio che è elencata Giovanna, la moglie dell’amministratore di Erode: badate, non era la moglie del portinaio, era la moglie dell’amministratore! Poi c’è la famiglia di Betania, questa famiglia nella quale Maria possedeva e poteva tranquillamente sacrificare in un colpo solo, per amore di Gesù, un prezioso vaso di alabastro e un profumo valutato trecento denari da un esperto come Giuda. Quelli che sanno fare i calcoli dicono che corrispondeva alla paga di un anno di un operaio. Quindi vuol dire che era certamente una famiglia ricca, se aveva queste cose.

Terza domanda: Come mangiava, come si riposava, dove viveva? Noi qualche volta abbiamo l’idea che Lui fosse una specie di zingaro, che passava per le strade, che viveva per la strada… ma il Vangelo non dice mica così. Proprio queste conoscenze che Egli ha lo mettono in grado di avere una ospitalità che gli fa da base al suo ministero itinerante. Certo suo è un detto famoso: ”Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”; ma questo detto va inteso con giudizio, perché ha lo scopo evidente, nel contesto, davanti allo scriba che vuol mettersi alla sua sequela, di chiarire, con efficace paradossalità, che la missione di Cristo è incompatibile con una condi-zione residenziale stabile e sicura e con prospettive tipicamente borghesi. I Vangeli ripetuta-mente presentano Gesù che è ”in casa”. In Galilea il suo domicilio abituale è la casa di Pietro; da qui si sposta a predicare nei villaggi vicini ma per rientrare al termine del giro. Capitolo 2° di Marco: ”Rientrato dopo qualche tempo a Cafarnao, si venne a sapere che era in casa e si ra-dunarono tante persone da non esserci posto neanche davanti alla porta.” Capitolo 3° di Mar-co: ”Entrò in casa, e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla”. E proprio tra quattro mura della sua casa abituale Egli spiega più comodamente ai discepoli quanto all’aperto aveva detto a tutta la gente. Capitolo7° di Marco: ”Quando entrò in casa -lontano dalla folla- i discepoli lo interrogarono sul significato della parabola”. E proprio in casa fa, come dire, i corsi accele-rati per il suo gruppetto, risponde alle domande degli Apostoli. Capitolo 9° di Marco: ”Entrò in casa e i discepoli gli chiesero in privato: Perché non abbiamo potuto scacciare quel demo-nio?” Perfino all’estero: in Fenicia, Egli ha un tetto sotto cui rifugiarsi. Siamo ancora nel Van-gelo di Marco, al capitolo 7°: ”Partito di là, andò nella regione di Tiro e Sidone -quindi è fuori dal territorio abitato dagli Ebrei- ed entrato in una casa voleva che nessuno lo sapesse.” Ave-va una residenza presso una persona amica. Presso Gerusalemme, a Betania, ha una dimora amichevole, che gli offre un po’ di riposo e di calore familiare: la casa di Marta e di Maria.

Quarta domanda: Come stava in salute? Stava bene. Dalla narrazione evangelica Gesù si dimostra un uomo fisicamente vigoroso, resistente alla fatica e agli strapazzi. Ama comin-ciare prestissimo la sua giornata. Si legge nel primo capitolo di Marco: ”Al mattino si alzò quando ancora era buio, e uscito di casa si ritirò in un luogo deserto e là pregava”. In occasioni di particolare rilevanza si abbandonava anche a veglie molto prolungate, come per esempio quando San Luca nel 6° capitolo descrive la scelta degli Apostoli: ”Se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione; quando fu giorno chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici”. Sopporta bene i ritmi di un’attività che presto diviene spossante. Nei capitoli 3° e 4° l’evangelista Marco più di una volta nota: ”non avevano neanche il tempo di mangiare”; tanto è vero che a un certo punto si rende anche conto che non solo Lui ma anche gli Apostoli potevano risentirsi di questo ritmo e dice: ”Adesso andiamo a riposare”, e li porta fuori dai confini verso Cesarea di Filippo. Le sue giornate sono assillanti: fino a notte fonda andavano e venivano folle numerosissime, malati che cercavano sollievo, assetati di verità che chiedevano di ascoltarlo, avversari teologici che lo costringevano a discussioni snervanti. Qualche volta dopo una giornata come questa, piena, Lui cerca di sottrarsi e va, si apparta, cerca di andare in luoghi dove non c’è nessuno, ma là subito lo raggiungono, lo incalzano: ”Si alzò quando era ancora buio, e uscito di casa si ritirò in un luogo deserto, ma Simone (Pietro) e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce e trovatolo gli dissero: Tutti ti cercano”. Era un formi-dabile camminatore; si stancava anche Lui, come nota il Vangelo di Giovanni: dopo la traver-sata dalla Giudea alla Samaria, è stanco e si siede sulla spalletta del pozzo. Mi viene in mente una storiella, a proposito dell’incontro con la samaritana: quando c’erano ancora le classi di dottrina secondo i Confratelli della Dottrina Cristiana istituiti da S.Carlo e c’erano anche gli adulti, la dottrina la facevano i laici. Dicono che una volta un giovanotto malizioso dice al maestro di dottrina: – Però questa storia qui del Signore con la samaritana, insomma, non mi pare mica tanto bella! In fin dei conti erano lì da soli, era mezzogiorno, c’era caldo, …- Allora quell’uomo ci pensò su un po’ e diede una risposta che passò alla storia: – Prima di tutto, bisogna vedere se è vero (bisogna andare adagio a parlar male!); secondo: non è la più bella cosa che ha fatto; terzo: c’era di mezzo il pozzo. Ma questa era solo una storiella. Dunque si stancava anche Lui; si stancava perché il suo ministero era un continuo peregrinare per l’intera Palestina, e anche con qualche puntata fuori, una al nord, verso Cesarea di Filippo, e una verso ovest, a Tiro e a Sidone. E’ stato notato dai competenti, che l’hanno studiata da vicino, che la sua ultima salita, da Gerico a Gerusalemme, è stata un’impresa di prim’ordine. Sotto la sferza del sole, su sentieri senz’ombra, attraverso ammassi rocciosi, nel deserto dovette compiere una marcia di sei ore in salita, superando un dislivello di oltre mille metri.

Quinta domanda, la più curiosa di tutte: Era bello o era brutto? E’ sorprendente che questa sia stata una celebre controversia nei primi secoli del Cristianesimo. Ma discutevano in base a quello che dicevano i profeti. Il Salmo 44 dice che era il più bello dei figli dell’uomo, poi il profeta Isaia fa dire al Messia ”io sono un verme, non un uomo”. Ma sono argomentazioni di natura ideologica, da cui noi non possiamo ricavare nessuna vera testimonianza. Le fonti canoniche non ci danno notizie esplicite su questo tema, e noi, direi per rigore metodologico non possiamo ricorrere ad altre fonti, per esempio non possiamo ricorrere alla Sindone. Quindi non abbiamo notizie se era bello o non era bello. Ma c’è un episodio del Vangelo di Luca che ci può dare qualche aiuto. Al capitolo 9° si legge così: ”Mentre Egli parlava una donna alzò la voce in mezzo alla folla e disse: Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte! Ma Egli disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano.” Ebbene, questa ammiratrice sconosciuta, che non sa frenare l’entusiasmo e addirittura interrompe il discorso di Gesù, merita la nostra riconoscenza perché ci dà un indizio non trascurabile circa il fascino di questo giovane profeta di Nazaret. E Gesù risponde: ”Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio.” Cioè in fondo gli dice: ”Senti, ehi, stai attenta alla predica, invece di guardare di che colore ho gli occhi, se sono bello, se sono brutto… Sta’ attenta alla parola di Dio.” Soprattutto c’è un elemento della bellezza umana che pur essendo in sé di natura fisica è quasi un riverbero della vita dello spirito, ed è lo splendore degli occhi. Gesù l’aveva notato: ”La lucerna del tuo corpo è l’occhio: se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nelle luce”. Bene, credo che possiamo dire con sicurezza che gli occhi di Gesù dovevano essere davvero incantevoli, penetranti e quasi magnetici; chi li aveva visti non se ne dimenticava più. Soltanto così si spiega la straordinaria frequenza con cui gli Evangelisti, specialmente Marco, che riferisce i ricordi di Pietro, pongono in rilievo il suo sguardo. E’ una notazione frequentissima, nel Vangelo. Ed è importante cogliere le sfumature dei testi originali: il verbo guardare, blepein in greco, è impiegato in tre espressive variabili. Il primo verbo che usano gli Evangelisti era ”guardare attorno” (periblèpesthai); secondo ”guardare in alto” (anablèpein); terzo ”guardare dentro” (enblèpein). E se noi facciamo passare tutti i testi del Vangelo seguendo queste tre tracce, veniamo a scoprire delle cose interessanti: quando Gesù gira attorno i suoi occhi, tutti ammutoliscono, intimoriti e affascinati; con questo sguardo, come ci dice il Vangelo di Luca, Egli invita al raccoglimento prima della predicazione: prima di parlare Lui li guarda tutti, e tutti restano incantati; con questo sguardo manifesta il suo affetto e la forte comunione con i discepoli: ”Girato lo sguardo (periblepsàmenos) su quelli che gli stavano seduti intorno, disse: Ma siete voi mia madre e i miei fratelli!”. Con questo sguardo prepara i buoni ad accogliere gli insegnamenti più inattesi, più originali, quelli che sono destinati a stupire di più, come quando ha parlato della faccenda delle ricchezze; girando lo sguardo, quasi a dire: state attenti che adesso la dico grossa! ”Gesù, volgendo lo sguardo attorno (periblepsàmenos), disse ai suoi discepoli: ”Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel Regno di Dio! E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago.” Come mai questo? Perché per la mentalità ebraica era il contrario: chi era ricco e stava bene, vuol dire che era benedetto dal Signore; e quindi era l’amico di Dio, perché il Signore premia chi sa che tutto viene da Dio, che a far bene si trova bene, non ha mai visto uno che sia religioso e che cerchi l’elemosina, eccetera. Allora Gesù, prima di dire una cosa così, che sconcerta, guarda attorno. Qualche volta è uno sguardo muto così intenso che l’evangelista lo registra. Per noi la frase diventa un po’ strana; per esempio il Vangelo di Marco, quando racconta l’ingresso di Gesù in Gerusalemme per la festa, dice che va a finire nel Tempio, e dice così: ”Entrò nel Tempio e dopo aver guardato ogni cosa attorno (periblepsàmenos pànta), uscì.” Dev’essere stato uno sguardo che davvero non poteva essere dimenticato. Qualche volta è uno sguardo così carico di sdegno e di sofferenza che gli astanti zittiscono e non osano più replicare. E’ l’episodio raccontato nel 3° capitolo di Marco, quando mettono un uomo malato, con la mano rattrappita, in prima fila, proprio per provocare il miracolo e accusarlo. La grande polemica fra Gesù e i Farisei era che Lui, facendo i miracoli, esercitava l’arte della medicina, e questo era proibito dalla Legge in giorno di sabato. Allora Gesù, ”guardandoli tutti intorno (periblepsàmenos autoùs) con indignazione -traduce pudicamente la CEI, ma vuol dire ”con rabbia” -, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell’uomo: Stendi la mano”. Cioè, questo sguardo iroso esprimeva il suo sdegno perché prendevano la sofferenza umana come strumento e occasione delle polemiche teologiche. Questo non lo poteva sopportare. Poi c’è lo sguardo in alto: questo lo adopera prima di cominciare a pregare, per esempio nel fare i miracoli: guarda quasi a cercare il Padre, per mettersi in comunione con Lui. Ma non solo: qualche volta invece lo sguardo in alto è molto più semplice, come in quell’episodio così bello, così interessante che è quello di Zaccheo, che era il capo dei pubblicani di Gerico, quindi era un personaggio importante, come fosse l’Intendente di Finanza, e che sente la nostalgia, quasi il desiderio di vedere questo Gesù di cui tutti parlano, ma non riusciva a vederlo perché c’era tanta folla e lui era un ometto piccolo; e allora gli viene un’idea stranissima: siccome passava sotto gli alberi, i sicomori, lui va avanti, si arrampica sull’albero, nascosto tra le foglie, e dice: Così almeno lo vedo! E Gesù arriva sotto, e quando fu sul luogo ”alzò lo sguardo” (anablèpsas), cioè va a cercarlo tra le foglie, e disse: Zaccheo, vieni giù, perché oggi voglio mangiare a casa tua, voglio fermarmi a casa tua. La delicatezza di questo sguardo, che lo converte non facendogli una predica ma chiedendogli da mangiare, è un modo di toccare il cuore. Mi viene in mente una cosa che mi è capitata nei primi anni di sacerdozio. A Varese, c’era un vecchio anticlericale, proprio un anticlericale professante, che aveva una buona moglie molto devota; e a un certo punto si ammala, si aggrava, e la moglie comincia a pensare che insomma qui bisognerebbe trovare un sistema per un eventuale prete, cercare di metterlo a posto; ma tutte le volte che accennava questo discorso, quello si arrabbiava, bestemmiava… Alla fine si era rassegnata, questa donna. Un bel giorno lui spontaneamente gli dice: -Vai a chiamarmi don Rino-. Lei per paura che cambiasse idea, non sta mica lì a discutere, va di corsa a chiamare questo prete. Si confessa, fa la Comunione, tutto. E questa donna era molto contenta, però non riusciva a capire: Insomma, mi piacerebbe sapere chi è stato a persuaderlo, non ci son mica riuscita, io! ”Come mai hai mandato a chiamare don Rino?” E lui gli ha risposto, in dialetto: ”Perché una volta gli ho offerto un bicchiere di vino e l’ha preso.” Aveva fatto la bravata: era sulla porta dell’osteria; lui, anticlericale notorio, visto passare un prete: ”Reverendo, venga a bere un bicchiere con la gente, no?” E lui: ”Bravo, grazie, grazie!” e l’ha bevuto. Quello è rimasto così, trafitto; quel momento, insomma, gli è servito per aprire il cuore. La Grazia era andata a nascondersi in un bicchiere di vino. Ma in realtà è la stessa logica con cui Gesù converte Zaccheo accettando il suo pranzo. Poi c’è l’altra variante, che è ancora più interessante: enblèpein -ricorre nove volte nel Vangelo-, che vuol dire guardare dentro: Gesù guarda dentro. Lo fa quando deve comunicare qualche verità insolita che vuole imprimere bene nella mente di chi ascolta. Quando gli apostoli chiedono: ma allora chi è che si salva? Allora Gesù, guardandoli dentro (enblèpsas autòis) disse: ”E’ impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio”. Nel capitolo 20 di Luca: ”Allora Egli si volse verso di loro – ma in realtà il testo greco dice enblèpsas autòis, ”li guardò dentro” – e disse: chiunque cadrà su questa pietra, – cioè il Messia, che è il Figlio di Dio – si sfracellerà, e a chi cadrà addosso lo stritolerà.” Per dire che con Gesù non si può barare, o da una parte o dall’altra. Soprattutto l’episodio del giovane ricco che gli chiede di seguirlo: – Cosa devo fare per arrivare alla vita eterna? – Osserva i comandamenti. – Ma questo lo faccio già. E il Vangelo dice una cosa molto bella. Dice: Enblèpsas autò, egàpesen autòn: Gesù ”lo guardò dentro, e lo amò.” E questo sguardo che coglie il mondo interiore soprattutto diventa molto interessante a proposito di Pietro, che ha avuto l’esistenza segnata da due sguardi come questo. La prima volta che lo vede: ”Gesù, fissando lo sguardo su di lui (enblèpsas autò), guardandogli dentro, disse: Tu sei Simone figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa, che vuol dire pietra”. Questo è lo sguardo di dentro che segna la sua vocazione. E poi nell’ora del suo tradimento: ”Il Signore, voltatosi, guardò Pietro, (enèblepse tò Petrò), guardò dentro a Pietro, e Pietro, uscito fuori, pianse amaramente.”

Se noi ci domandassimo: ma, nella storia della religiosità, quale è stato l’apporto originale di Cristo? Anche nella storia del pensiero: qualche volta qualcuno dice: Gesù Cristo è stato come un grande filosofo, un grande genio religioso, o altro ancora. Ma, io credo che ci sono tre cose che sono molto tipiche di Gesù Cristo. Prima di tutto nessuno con più forza e con più intensità di Lui ha affermato l’universale paternità di Dio. Dio è Padre. L’ha detto in tutti i modi. Ed è quello che distingue il Cristianesimo da qualunque altra religione. Quando voi vedete la distesa dei musulmani che pregano Dio, siete ammirati di questo; ma questo è lo spettacolo degli schiavi, cioè dei servi di Dio. L’atteggiamento del cristiano è quello che si nota nelle catacombe: in piedi, con le braccia alzate, perché parla al Padre. La seconda è che nessuno più di Lui ha indicato l’amore come l’anima, il senso, il vertice di ogni rapporto con Dio. Tutta la Legge in cosa consiste? Amerai! Amerai il Signore Dio tuo, amerai il prossimo come te stesso. Terzo: nessuno prima di Lui aveva tanto efficacemente sottolineato il primato del mondo interiore su ogni formalità e ogni estrinsecismo: non è quello che entra nell’uomo che conta, le cose che si mangiano, ma quello che esce dall’uomo. Basterebbero queste cose a classificare Gesù fra i grandi fondatori di religioni dell’intero genere umano.
Non siamo ancora arrivati a capire l’originalità vera di Gesù, perché Lui è un tipo assolutamente imparagonabile, non può essere confuso con nessun altro. Ciò che fa di Gesù di Nazaret un caso del tutto inedito è la sua convinzione di essere costituito in una relazione così particolare con il Dio d’Israele che si avvera e vale solo per Lui. Se Egli ha potuto pensare al Creatore del cielo e della terra come a un Padre, è perché prima ancora Egli ha percepito se stesso come Figlio proprio, Figlio in un senso unico, in un senso inconfondibile, in un senso impartecipabile. Dio, questo lo ripete continuamente, è il ”Padre Mio”. Ogni suo sentimento, ogni sua parola, ogni suo atto è ispirato da questo convincimento, che a rifletterci un poco non può non lasciarci stupefatti: questo uomo è convinto di essere il Figlio Unico di Dio. Sì, gli altri sono suoi fratelli, perché anch’essi sono figli di Dio, e a volte li chiama così, i miei fratelli più piccoli; specialmente si compiace di chiamare fratelli i suoi discepoli: ”Va’ dai miei fratelli” dice a Maria di Magdala. Ma non si mette mai insieme. Per esempio è stupefacente che sulle labbra di Cristo non compare mai la parola ”Padre nostro”. O ”Padre mio” o ”Padre vostro”. E quando insegna il Padre nostro, se voi leggete il testo originale che è chiarissimo, dice: ”Quando pregate, pregherete così voi – in fondo alla frase il soggetto è ”voi”- : Padre nostro…” Tutti figli di Dio, ma ognuno al suo posto: Lui non si mette insieme agli altri, Lui è un caso unico. Tanto è vero che la mattina di Pasqua, quando deve dare una commissione da fare a Maria di Magdala, gli dice: ”Stai attenta bene, devi andare dai miei fratelli, devi dire: Io salgo al Padre mio e al Padre vostro.” Non faceva mica più in fretta a dire ”Io salgo al Padre nostro”? No, no, distingue sempre, non si confonde mai. Qui bisogna fare attenzione. Questa è sul piano delle certezze razionalmente attingibili un punto che è incontestabile per tutti. Uno può credere o non credere, però è evidente dal Vangelo che Gesù si ritiene un Figlio Unico in un senso inconfondibile. Credenti o non credenti che si possa essere, a nessuno è lecito dubitare che Gesù di Nazaret sia stato totalmente persuaso di essere Figlio del Dio d’Israele in un senso del tutto singolare e in un modo del tutto incomunicabile. Cioè di essere quello che il Vangelo di Giovanni, interpretando benissimo il pensiero di Cristo, dirà ”l’Unigenito”: ”l’Unigenito del Padre”. Nessun uomo tra i grandi maestri dell’umanità, nessuno tra i fondatori di religione è mai stato sfiorato da un pensiero paragonabile a questo. Lui invece intende questa qualifica come qualcosa che è suo in maniera assolutamente esclusiva. Sotto questo profilo è del tutto assurdo, direi storicamente assurdo, indipendentemente dalle proprie convinzioni, collocare Gesù di Nazareth tra gli altri fondatori di religione – Budda, Maometto eccetera – perché confrontato a loro Egli è molto diverso: è molto di più, o se si vuole molto di meno; perché se uno pensa che un uomo che si mette in testa di essere il Figlio Unico di Dio dev’essere matto, allora non c’è più lo spazio per dire ”è un grande uomo”: è un grande matto! Insomma alla fine credo che questo ci costringe a una scelta: o lo si prende per matto, o davanti a Lui ci si inginocchia. Non abbiamo evidentemente altra scelta.

Eucaristia: presenza di Gesù tra noi
don Luciano Luppi, direttore spirituale del Seminario Arcivescovile
15 marzo 2001

Molti pensano che il Cristianesimo sia l’annuncio che dobbiamo volerci tutti bene. Il cuore del cristianesimo invece è quel grido che il giorno di Pasqua per la prima volta è risuonato a Gerusalemme e che da allora continua a risuonare dovunque qualcuno ha accolto il Vangelo. ”Gesù è risorto!” Questo è il cuore del cristianesimo: che la morte è vinta, Gesù è risorto. Gesù è vivo, Gesù è risorto; ma dove posso incontrarlo, dove posso riascoltare davvero la sua voce, dove posso andargli vicino e sentire che la Sua presenza mi guarisce; Dove posso portargli i miei problemi, la mia vita, la fatica, le mie sofferenze e lasciarmi illuminare dalla Sua presenza, dove la potenza rinnovatrice e salvifica di Gesù può raggiungere la mia vita e diventa accessibile?
Il luogo è la Chiesa; nella Chiesa noi facciamo esperienza viva del Signore. La Chiesa nasce dall’Eucaristia, perché l’Eucaristia è il momento vertice della presenza viva del Signore risorto che costruisce la Chiesa. Nel cuore della Chiesa ci sta l’Eucaristia.
Il Signore ci ha detto: ”Fate questo in memoria di me”. E’ stato un comando preciso; il Signore ha voluto che la vita cristiana, la vita della Chiesa partisse da questa obbedienza. Quando celebriamo l’Eucaristia, noi obbediamo al Signore che così ha voluto che noi facessimo memoria di Lui, una memoria che non è solo un ricordo. Il Signore è davvero in mezzo a noi!
Così faceva la prima comunità di Gerusalemme attorno agli Apostoli: erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli, nella unione fraterna, nella fra-zione del pane e nelle preghiere: sono i quattro pilastri di ogni comunità cristiana. L’espressione – frazione del pane – vuole proprio indicare l’Eucaristia. Gesù disse: ”Prendete e mangiate, questo è il Mio Corpo” e lo spezzò perché venisse distribuito.
Giustino, filosofo dapprima pagano, originario della Palestina attorno al 150 d.C, poi approdato al cristianesimo, sente il bisogno di insegnare la via del Vangelo, e si trasferisce a Roma dove i cristiani sono più o meno clandestini, visti con sospetto. Giustino scrive una lettera all’imperatore Antonino Pio, per spiegare chi sono i cristiani.
In questa lettera, l’Apologia, racconta ciò che i cristiani fanno. Dice: ”Ordunque, noi dopo avere così lavato chi crede e ha aderito (Battesimo), lo conduciamo nell’adunanza dei fratelli, come noi ci chiamiamo, onde pregare in comune fervidamente per noi, per chi è stato appena illuminato col Battesimo, e per tutti gli altri, ovunque siano; per meritare, dopo aver appreso la verità, di riuscire buoni nelle opere della vita, osservanti dei precetti, e conseguire così la salvezza eterna. Cessate le preghiere, ci abbracciamo con scambievole bacio. Quindi viene recato a chi presiede la comunità dei fratelli un pane ed una coppa con vino temperato con l’acqua; egli li prende e loda e glorifica il Padre di tutti per il nome del Figlio e dello Spirito Santo, poi fa un lungo ringraziamento per averci fatti meritevoli di questi doni. Terminate le preghiere e il ringraziamento eucaristico, tutto il popolo presente acclama: Amen . Quando chi guida la comunità ha reso grazie e tutto il popolo in coro ha risposto, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane e il vino mescolato con l’acqua, consacrati, e ne portano anche agli assenti. (che ne sia portato anche a coloro che non hanno potuto adunarsi…). Questo alimento noi lo chiamiamo ”l’Eucaristia” e non è dato partecipar-ne se non a chi crede veri gli insegnamenti degli Apostoli e ha ricevuto il lavacro (battesimo) per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive secondo le norme di Cristo: poiché noi non lo prendiamo come un pane comune e una comune bevanda, ma come Gesù Cristo Salvatore nostro incarnatosi – per la Parola di Dio prese carne e il sangue per la nostra salvezza -, così il nutrimento consacrato con la preghiera di ringraziamento formata dalle parole di Cristo e di cui si nutrono per assimilazione il sangue e le carni nostre, è secondo la nostra dottrina Carne e Sangue di Gesù incarnato. Gli Apostoli difatti nelle loro memorie dette ”I Vangeli” tramandarono che Gesù Cristo lasciò loro tale comando: prese un pane, e rese grazie e disse loro ”Fate ciò in memoria di Me: questo è il Mio Corpo”; e preso similmente il calice rese grazie e disse: ”Questo è il Mio Sangue”; e a loro soli li offrì. E da allora sempre rinnoviamo tra noi la memoria di queste cose”.
E’ una fede chiara, limpida, professata davanti all’imperatore: fede nella presenza reale del Signore. S. Paolo nella prima Lettera ai Corinti, al cap.X, dice: ”…e il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse comunione con il Sangue di Cristo? e il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il Corpo di Cristo?”
Le formule del catechismo esprimono la certezza della presenza viva del Signore nell’Eucaristia e parlano di presenza vera, reale, sostanziale di Gesù Signore. Presenza vera: non è soltanto un simbolo; ”simboleggiamo la presenza di Gesù, il sacrificio di Gesù”, è veramente presente. Presenza reale: non dipende dal fatto che io la credo o non la credo: c’è. Non sono io con la mia fede che suscito la presenza di Gesù, ma è perché c’è che io ci credo. Presenza sostanziale: è davvero presente proprio Lui, in persona, nella Sua sostanza della Sua persona di Figlio di Dio fatto uomo, e non nelle Sue apparenze sensibili; tanto è vero che alla vista, al tatto, al gusto, continuo a sentire il pane, ma nei segni del pane e del vino, è davvero presente nel mistero della Sua persona, il Figlio di Dio fatto uomo, nella sua umanità glorificata, nella sua divinità di Figlio di Dio.
Come è possibile che ci sia veramente il Signore, che pane e vino siano Suo Corpo e Suo Sangue? E’ possibile perché il Figlio di Dio davvero si è fatto uomo, non solo in apparenza si è fatto in tutto simile a noi assumendo la nostra natura umana. Ma c’è anche un altro motivo. Il Signore è risorto, realmente vivo, corporalmente e personalmente vivo! Dire che Gesù è risorto non è dire solo che è tornato in vita: ma che ormai non muore più, e la sua umanità è pienamente partecipe ormai della sua divinità glorificata, ed è quella umanità glorificata che ci è data, a cui noi attingiamo, da cui prendiamo vigore. Se davvero il Figlio di Dio non si fosse fatto uomo come noi, nel grembo di Maria, come potremmo noi attingere alla sua vita? Se fosse soltanto apparenza, e se Lui non fosse vivo e risorto nel suo corpo glorificato, come potremmo noi attingere alla sua vita? Attingeremmo alla vita di un corpo morto. Per noi proclamare che Gesù è vivo e presente nell’Eucaristia significa riconoscere che tutta la storia della salvezza è il manifestarsi della volontà di Dio di farsi vicino e di chiamarci alla comunione con Sé. Tutta questa storia di salvezza ha proprio il suo vertice nell’Eucaristia. Tutta la creazione, la rivelazione progressiva, da Abramo a Mosè e ai Profeti, tutto il mistero dell’Incarnazione, della Redenzione pasquale di Gesù culminano proprio nell’Eucaristia, in cui davvero Dio si è fatto l’Emmanuele: Dio con noi. Ma come ci è data questa presenza del Signore, come mai succede che il Signore sia davvero presente lì? Scrive S. Ambrogio: ”Quando arriva il momento di realizzare il venerabile Sacramento, il sacerdote non usa più parole sue, ma di Cristo: QUESTO E’ IL MIO CORPO DATO PER VOI… QUESTO E’ IL MIO SANGUE VERSATO PER VOI… E’ dunque la Parola che opera il Sacramento. Vedi quanto è efficace il parlare di Cristo!” In quel momento è davvero Cristo vivo, che nel sacerdote che presiede l’Eucaristia, parla e agisce; quindi è innanzitutto per la forza della parola di Cristo che lì davvero si compie il mistero della Sua presenza. Ma la forza della parola di Cristo è accompagnata dalla potenza dello Spirito Santo. Prima delle parole che ricordano l’ultima Cena di Gesù, il sacerdote stende le mani invocando lo Spirito Santo. Dice esattamente nella preghiera eucaristica terza: ”Ora ti preghiamo umilmente, Padre: manda il Tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, Tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri.” La potenza dello Spirito Santo e le parole di Gesù realizzano questa presenza. ”Mistero della fede”: è il grido e l’acclamazione: ”Annunciamo la Tua Morte, Signore, proclamiamo la Tua Resurrezione, nell’attesa della Tua Venuta”.
Gesù ha voluto che l’evento salvifico della sua morte fosse reso accessibile a noi, in ogni tempo, in ogni generazione. Per questo egli stesso ha stabilito il rito memoriale della Sua Pasqua: che segna per noi la nuova Pasqua, il passaggio dalla schiavitù del peccato, da un destino di morte alla libertà di figli di Dio, alla pienezza della vita. Quell’unico sacrificio è continuamente reso presente nell’Eucaristia, nella cena del Signore; non si moltiplica più volte, è sempre quello! Ma si rende presente e attuale per ciascuno di noi ogni volta che celebriamo il memoriale del Signore.
La presenza di Gesù nell’Eucaristia non è una presenza statica; è una presenza sacrificale, nell’atto di chi dona la vita. Nella Messa il Signore è presente come Colui che si fa pane spezzato, corpo dato: ”la mia vita per voi”. Ciò vuol dire riconoscere che c’è Qualcuno che per me ha dato la sua vita. Se io posso guardare con speranza la mia vita, e pensare che i miei peccati sono perdonati, se posso attendere la morte non come l’ultima parola sulla mia esistenza ma come il passaggio alla vita eterna, è perché Qualcuno per me ha dato la vita, per me è morto. Noi andiamo a Messa innanzitutto per non smarrire mai questa consapevolezza che Qualcuno ha dato la vita per noi. Noi siamo gente viva perché Qualcuno è morto, che ha speranza perché Qualcuno si è abbandonato nell’abisso disperante della morte, che è perdonata perché Qualcuno si è caricato dei nostri peccati. Accostandoci all’Eucaristia, noi siamo chiamati a ravvivare continuamente questa nostra gratitudine nei confronti del Signore. Tutte le nostre perplessità, i dubbi, le nostre potenziali diffidenze e sfiducie nei confronti del Signore si dissolvono. Davanti all’Eucaristia tutte le nostre fatiche a credere all’amore di Dio si dissolvono. Ma anche tutte le nostre fatiche di amare gli altri si dissolvono; perché quando andiamo davanti a Lui e pen-siamo che ci ha amato fino a dare la vita gratis, a fondo perduto, sapendo che forse neppure avremmo detto grazie, come possiamo poi rifiutare l’invito di aiutare gli altri? Dall’Eucaristia noi ripartiamo risanati, riconquistati dall’amore gratuito del Signore, capaci anche noi di usare misericordia e di perdonare, perché tanto e in sovrabbondanza abbiamo ricevuto. Celebrare l’Eucaristia è davvero accogliere quella logica di amore a fondo perduto, di servizio, di dono della vita, che è la croce e la morte di Gesù, e farla diventare la legge della nostra vita. Ma è anche celebrare la presenza del Signore risorto.
Il rito memoriale che Gesù ha istituito è un convito, una mensa; è il rito memoriale della morte del Signore che è vivo in mezzo a noi, che è il Risorto, e che dall’Eucaristia sprigiona tutta la Sua potenza di Risorto e di Signore. Lì c’è quell’energia che ci risuscita dal peccato che porta alla morte, perché viviamo una vita nuova, e lì c’è il pegno dell’immortalità. ”Chi mangia la Mia Carne e beve il Mio Sangue ha la vita eterna, e lo resusciterò nell’ultimo giorno”. (Giov. cap.6) Nutrendoci del Signore in noi è innestata la forza, l’energia vivificante del Signore risorto, perché viviamo da risorti, una vita nuova; non più la schiavitù del peccato; poniamo i segni di un mondo nuovo, già iniziato con Lui, di una vita trasfigurata; e abbiamo noi già il germe della vita eterna. La presenza sacrificale del Signore risorto, che comunica la Sua forza, genera una comunione nuova. ”Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico Pane” (Corinti cap.10, 17). Se noi diventiamo concorporei di Cristo, consanguinei di Cristo, diventiamo un solo corpo, consanguinei tra di noi. In noi pulsa la stessa vita, lo stesso spirito. E’ un legame più forte dei legami di sangue che la morte spezza. E’ il legame più forte che esista e fa di tutti noi insieme una cosa nuova che è la Chiesa. Sono un controsenso le divisioni in una comunità cristiana, perché nell’Eucaristia il Signore ci fa una cosa sola.
Ecco perché è una drammatica controtestimonianza l’indifferenza tra cristiani: perché noi siamo una cosa sola! Dio ci ha posto come una cosa sola per essere il lievito di riconciliazione fra tutti gli uomini in questo mondo. L’essere una cosa sola, un amarsi che non è punto di partenza: il punto di partenza è il Signore vivo e risorto in mezzo a noi. Di qui il legame fortissimo tra l’Eucaristia e la Domenica. Se l’Eucaristia è davvero la celebrazione della presenza del Signore, che ci fa una cosa sola con Lui e tra di noi, se è davvero celebrazione della Sua presenza viva di Risorto, allora il cuore della Domenica, perché celebra di settimana in settimana la vittoria di Cristo sulla morte, il cuore della Domenica non può non essere la Messa, non può non essere l’Eucaristia.
La Didachè, libro che risale al secondo secolo e che espone la dottrina degli apostoli, ha un grande inno, che culmina così: ”Come questo pane che spezziamo prima era sparso in chicchi di grano sui colli e nei campi ed ora forma una cosa sola, così sia riunita la Tua Chiesa dai confini della terra nel Tuo Regno”. Con il Pane dell’Eucaristia Cristo Signore fa davvero che anche noi siamo una cosa sola; che la Chiesa sia riunita sino ai confini della terra, che tutti i Cristiani del mondo siano uniti, perché nell’Eucaristia siano uniti tutti gli uomini del mondo, che si realizzi questa convocazione e riunificazione universale, che è nel suo progetto di salvezza. Quando noi celebriamo la Messa accade qualcosa che ha il potere di innescare, proprio qui, dove noi viviamo, nel mondo intero, questa unità, questa forza di comunione, di cui poi noi siamo chiamati ad essere testimoni, operatori concreti.

Gesù Risorto vive in mezzo a noi nella sua Parola
don Daniele Busca, parroco a S. Luigi di Riale
19 aprile 2001

Abbiamo appena conclusa l’Adorazione Eucaristica, e prima c’è stata la Messa. Siamo nella stessa situazione dei due discepoli di Emmaus, che sono ritornati dagli apostoli a dire ”abbiamo visto il Signore, l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane”. Anche ora il Signore arriva, e consegna a noi discepoli riuniti la Sua Parola, perché apra l’intelligenza alle Scritture. Non viene a dire ”la Scrittura non serve più, non conta più”; anzi, la ricon-segna perché possa essere riletta e riaccolta alla luce di Cristo Gesù, che non si è incarnato soltanto, ma è anche morto e risorto e ora ci parla pienamente nel suo Vangelo.
Esprimo la mia gratitudine al Signore e anche la mia gioia di essere in mezzo a voi, in mezzo cioè ad altri cristiani, a gente che vive lo stesso respiro e il desiderio di camminare con Cristo, di camminare insieme, in comunione. Vi assicuro che è un grande conforto la serenità di sentirsi comunque a casa propria, con gli amici che fanno la stessa strada con il Signore Gesù.
In verità non esiste separazione tra vita spirituale, cammino di preghiera e vita quotidia-na. C’è interazione, addirittura profonda unità. Vita quotidiana e vita spirituale sono un po’ come il cuore e il sangue: occorre che il sangue vada in tutto il corpo. Non basta solo la preghiera ma la vita spirituale è staccata dalla vita quotidiana; occorre che la vita spiri-tuale irraggi tutta la nostra giornata, dalla mattina quando ci si alza fino a quando si va a letto. Provate a pensare quanto sia importante che la nostra vita spirituale invada la nostra giornata. Pensate alla mattina, quando apriamo gli occhi. Ha senso alzarsi – sto parlando dei cristiani, ovviamente – senza il Signore? Che scopo ha allora il nostro destarci dal sonno, il nostro scendere dal letto, e combattere la pigrizia che immobilizza sotto le coperte? Lo svegliarsi al mattino ha come primo scopo il mettersi al servizio del Signore.
E scopri che questo servizio non è opera tua, ma collaborazione all’agire di Dio, risposta cioè alla Parola di Gesù che ti chiama, e come il paralitico ti prende per mano e ti dice: ”Alzati! Prendi il tuo lettuccio e cammina”. E’ Gesù che ti dice ”Alzati!”, perché tu non ti alzeresti se non fosse il Signore che ti parla. E’ il Cristo risorto che ti chiama e ti dà la forza di uscire dalla tua impotenza. E’ la Sua parola che ti dice di alzarti, ed è la Sua Parola che ti alza: è una Parola efficace, viva, attiva. Occorre che tu ascolti questo invito e dire il tuo sì, perché se nicchi,…tutta la tua giornata è affaticata. Si vive la giornata nel dormiveglia spirituale: lavori, cammini, ti muovi, ma sei nel dormiveglia, rimandi sempre, tanto c’è sempre tempo, ma poi ti accorgi che è già finita la giornata.
Che cosa sarebbe successo al paralitico se non avesse risposto a Gesù? Sarebbe rimasto paralitico! Che cosa può succedere a noi se non rispondiamo alla Parola del Cristo che ci chiama? Rimaniamo quelli che siamo; continueremo a lavorare sul piano naturale ed umano, ma vivremo la nostra giornata priva di luce sul piano soprannaturale. Ecco, la Parola di Gesù ha il potere di svegliarci e di darci l’energia per la nostra giornata, perché Gesù è vivo, è risorto e con la sua parola è presente, ci guida, ci dà forza.
Nella celebrazione del battesimo c’è il rito dell’”Effatà”: Apriti! Apri le orecchie all’ascolto, la bocca a proclamare la Parola. Non dimentichiamolo questo gesto compiuto su di noi: Apriti! All’ascolto della Parola di Gesù, vivo, presente, oggi, qui. Le nostre orecchie possono aprirsi all’ascolto della Parola di Gesù per lodarLo, per entrare in dialogo con Lui, per rispondere, per rimanere con Lui. Perché Gesù è risorto dai morti. E’ la notizia prorompente del giorno di Pasqua.
Gesù è risorto. E non può essere muto. Hanno tentato di zittirLo, ma non ci sono riusciti. Come mai? ”#8221;Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.
Se non passano vuol dire che sono vive, e Cristo è vivo. Davvero Gesù oggi parla alla nostra comunità cristiana, parla a tutti, costruisce la comunità con la Sua Parola.
Cosa vuol dire partecipare alla Messa? L’Eucaristia è un mistero d’amore: il Signore ci chiama. Siamo convocati dall’amore. Chi di noi non vuole ricevere amore? Chi non sente il bisogno di trasmettere affetto e amore?
L’Eucaristia è un incontro. Se è così, è giusto cercare la Messa più corta? Se l’Eucaristia è tutto questo, chiediamoci: se arriva un estraneo, si sente accolto? C’è chi lo saluta, chi lo ascolta? Purtroppo è facile ridurre i Sacramenti a ”cose da fare”, e usarli a nostro piacimento, e quindi rovinarli. Anche la stessa Messa è stata manipolata, fino a renderla una cosa da sce-gliere: quella più piacevole, quella più corta, quella più comoda, e non è più ”il mistero dell’a-more di Dio donato”. Non dimentichiamo però che, di fronte ad un mistero, o ti inginocchi e ti apri nella fede a questo mistero, o ne rimani fuori e non lo comprendi; non capirai mai que-ste cose fintanto che non ti apri. Tu non puoi dire che il sole non c’è solo perché tieni chiuse le finestre di casa tua, solo perché tieni chiusi ”gli occhi dell’anima e le orecchie del cuore”.
La Messa è memoriale: ”Fate questo in memoria di me”. La Parola di Gesù che con-tinua ad essere presente. Noi viviamo ciò che il Signore ci chiede di fare per stare con noi, perché noi possiamo rimanere in Lui. Il memoriale non è solo un ricordo storico, ma è l’incontro personale con Dio. L’incontro con Dio è sempre un incontro voluto, perché è Lui che ci viene incontro, non siamo noi; non andremmo incontro al Signore se non fosse il Signore a venirci incontro. E’ sempre un incontro voluto e vocazionale, cioè chiamata vali-da per tutti e per tutte le età. Gesù ci parla, ci convoca, ci affida una missione, e ci sostiene nella missione. Per questo Gesù ha detto ”Fate questo in memoria di me”. La Messa non basta che sia bella, bisogna che sia utile, e lo è, perché è il Signore che agisce; la Messa de-ve farci incontrare Gesù, allora è utile. Gesù ci vuole incontrare e prendere in braccio. La Chiesa che celebra l’Eucaristia è fedele a Gesù e alle sue parole che risuonano nel Vangelo.
Delle due parti centrali della Messa – Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica – la Parola viene prima, perché essa è all’inizio: ”In principio era il Verbo ”. All’inizio c’è la Parola, come all’inizio c’è la luce per vedere. ”In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. Se ci viene tolta la Parola, siamo nel buio. Dio convoca il Suo popolo e come prima cosa gli rivolge la Parola.
Se Dio rivolge la parola all’uomo vuole dire che l’uomo è un degno interlocutore di Dio. La Liturgia della Parola ci fa conoscere il cuore di Dio, il Suo amore per noi; e la Parola di Dio è Cristo che si dona totalmente.
Quanto male o quanto bene possono fare le parole. Alle volte le usiamo per offendere e, anche senza volerlo, creano delle fratture quasi insanabili o delle gioie profondissime.
La parola ha piani diversi: può essere detta con superficialità o con leggerezza, oppure senza che noi ci riveliamo, anzi può essere detta per mascherare o con falsità, alle volte può essere detta per nascondersi. Oppure la parola può essere detta con attenzione e col cuore.
La parola detta può impegnarci, oppure no; possiamo dire una parola stando accanto, oppure essere altrove con la mente e con il cuore. Dio con la Parola si è rivelato e donato totalmente, anzi questa è la grazia del Dio che ci è venuto incontro: Gesù.
Non siamo noi che cerchiamo Dio, è Lui che è venuto incontro a noi. La Sua Parola crea, sana, fa vivere, disseta, illumina. Egli con la Sua Parola ci accompagna nel cammino della vita. Ognuno di noi, è una Sua Parola detta. E come tali, ognuno di noi diviene immagine di Dio. Ognuno di noi, essendo la Parola di Dio, è importante per gli altri: diventa immagine di Dio da portare al fratello, e da accogliere nel fratello. Escludere qualcuno vuole dire escludere la Parola di Dio, escludere Dio stesso.
Con la Sua Parola quindi il Signore vuole farsi conoscere. Questo termine nel linguaggio biblico vuole dire ”possedere”. Nel farsi conoscere, Dio vuole farsi possedere; ci parla perché noi Lo conosciamo e Lo possediamo. Ecco perché, parlando della parola, non possiamo non fare un accenno al silenzio. Quanto è importante il silenzio! E’ importante la parola, è importante parlare, perché Gesù è la Parola. Ma non puoi parlare se non possiedi la parola. Voglio dire: noi parliamo perché qualcuno ci ha parlato.
Anche il silenzio quindi è importante, perché la parola sorge dal cuore e non solo dalle labbra. ”Se prendete un albero buono – dice il Signore – anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l’albero. Razza di vipere, come potete dire cose buone voi che siete cattivi? Perché la bocca parla dalla pienezza del cuore. L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive. Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio, perché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo, capitolo 12).
Gesù ci dice quello che è essenziale per la nostra vita. Certo, spesso facciamo fatica. Alle volte la parola di Gesù ci urta, non vogliamo ascoltare certe Sue parole, tuttavia le Sue sono parole di vita eterna. ”Volete andarvene anche voi?” Pietro ha capito bene: ”Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna.” D’altronde il parlare comporta un rapporto tra due persone, altrimenti è un monologo, uno parla da solo. Se effettivamente c’è questo rapporto a due, comprendete sempre di più quanto sia importante l’ascolto reciproco.
Per parlare, allora, occorre fare silenzio. Chi sa ascoltare, chi sa pregare, sa anche parlare, e può essere riflesso della parola di Dio: perché se noi non ascoltiamo, rischiamo di dare del pane a chi sta morendo di sete. Il Signore ci conosce bene, personalmente, come se fossimo gli unici al mondo: ecco perché la Sua Parola per noi è tanto preziosa, perché dice a noi quello di cui noi abbiamo bisogno. Ma come fa a conoscere tutti? Ogni tanto ci viene da dire: – Ma forse il Signore si è un attimo dimenticato di me, con tanti pensieri che ha…! Il Signore ci conosce benissimo! L’esempio del sole: il sole riscalda tutti, ciascuno, personalmente; è tutto per me, ma è anche tutto per te. Se è valido per una creatura di Dio, non è valido per Dio? State tranquilli che ci conosce bene!
Le Scritture sono lo strumento per dire a noi, oggi, la Parola di Dio, per farci partecipi del disegno di amore di Dio che si coinvolge nella nostra vita . Ci si alza in piedi quando viene proclamato il Vangelo, quasi a dire: Ecco, arriva il Figlio di Dio. Arriva una Persona che merita di essere ascoltata in piedi; come quando arriva un personaggio importante.
Ora, se la Chiesa permette di stare seduti durante le altre letture, è perché tiene conto che noi siamo deboli, ed è utile anche tener comodo il nostro corpo, così che il cuore si disponga più facilmente ad un ascolto gradito e attento.
Parla il Signore, allora gioite. Godiamo di questa Sua Parola, facciamo festa.

Concludo con questa citazione del Papa: ”Dopo tanta violenza e oppressione, il mondo ha bisogno di persone capaci di gettare ponti, per unire e riconciliare. Dopo la cultura dell’uomo senza vocazione, urgono uomini e donne che credono nella vita e l’accolgono come chiamata che viene dall’alto, da quel Dio che ama. Dopo il clima del sospetto e della sfiducia che inquina i rapporti umani, solo persone coraggiose, con mente e cuore aperti a ideali alti e generosi, potranno restituire bellezza e verità alla vita e ai rapporti umani. In nessun altro se non in Gesù c’è salvezza. Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati.”